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Trasgredire la regola della pistola di Checov: se apri una porta poi la devi chiudere, è ovvio, però, dipende da quello che vuoi dire e dal senso della storia.

Durante una chiacchiera su Whatsapp con un’amica, parliamo di un libro di Murakami, 1Q84, e di trasgredire la regola della pistola di Checov:

Checov dice: «Se in un romanzo compare una pistola, bisogna che spari». Secondo me, invece, sarebbe anche bello fare comparire una pistola, parlarne ogni tanto e non spiegarla né usarla mai. Il lettore è libero di crearsi il suo perché, no?

Dalla citazione di Checov si apre una riflessione mica da poco e nello stesso libro di Murakami c’è una discussione che fa fare un ulteriore passo avanti. La risposta, infatti, è semplice a un livello di pratica, ma diventa complessa quando ci si addentra nella ricerca di senso narrativo e la sua relazione con la realtà.

Intanto iniziamo a spiegare qual è il principio a cui si ispira Checov.

 

La regola di Checov della pistola

Cosa vuole dire la frase di Checov?

Significa che se nella storia che stai tracciando inserisci un personaggio, un ambientazione, un dettaglio o un qualsiasi elemento, questo dovrà per forza essere utile allo svolgimento della storia.

Se no cosa ci sta a fare lì?
Perché stuzzicare il lettore se poi non lo soddisfi?
Spara o non spara? A chi? Chi sarà il prossimo?

Questo avviene soprattutto con particolari originali o che spiccano per la loro forza emotiva o per ciò che potrebbero determinare. Emergono, si fanno notare, il lettore se ne accorge per forza, nota l’elemento e si chiede il perché?

Se il lettore si fa una domanda, vorrà avere una risposta e la sua mente sarà portata a cercarla in tutte le pagine del libro.

Sarà inevitabile, quindi, che nel proseguire della storia si chiederà a cosa servisse quella scena o quel dettaglio e magari inizierà anche a interpretare nuove scene e nuovi dettagli alla luce di quel primo elemento.

L’aspettativa più naturale è che questa attenzione, precedentemente allertata dall’elemento extra, o meglio dalla pistolasia soddisfatta entro la fine della storia.

Il ciclo naturale si compie così:

  • c’è una storia
  • appare un elemento che attira l’attenzione del lettore
  • la storia prosegue
  • l’elemento riappare perché fa parte della storia
  • la storia si conclude anche grazie a quell’elemento.
  • il lettore è soddisfatto perché lui l’aveva capito subito

Io di solito la spiego così: se apri una porta poi la devi chiudere.

L’alternativa: e se…

Paola, però, dice che sarebbe bello far “comparire una pistola, parlarne ogni tanto e non spiegarla né usarla mai. Il lettore è libero di chiedersi il suo perché, no?“.

O con le parole di Tamaru e Aomame, i due personaggi di Murakami di 1Q84:

Aomame si sistemò le maniche del vestito, e mise in spalla la borsa a tracolla.
– È questo che ti preoccupa. Pensi che se la pistola appare in scena, sicuramente farà fuoco.
– Assumendo il punto di vista di Cechov, sì.
– Quindi potendo vorresti evitarti di procurarmi la pistola.
– È un’arma pericolosa e illegale. Inoltre, aggiungerei che Cechov è uno scrittore attendibile.
– Ma questo non è un romanzo. Stiamo parlando del mondo reale.
Tamaru socchiuse gli occhi e guardò fisso il volto di Aomame.
– Chi può dirlo?

E ancora:

«Non è vero che tutte le pistole debbano fare fuoco, – si disse Aomame mentre era sotto la doccia. – Una pistola non è altro che uno strumento. E quello in cui vivo non è un mondo di finzione. È un mondo reale, pieno di smagliature, difformità, anticlimax».

È verissimo.

La vita non segue Checov, quindi ha perfettamente senso trasgredire la regola della pistola se vogliamo riprodurre una storia fedele alla frammentarietà di dettagli della realtà, al suo porre tanti elementi sullo stesso piano, all’annebbiare le giornate inserendo particolari qua e là che solo in seguito saremo in grado di definire utili o inutili.

Il problema è che quando leggiamo noi non cerchiamo la realtà in cui viviamo. Cerchiamo una visione di essa, un senso di quello che accade, una strada che ci conduca da un posto a un altro, qualcosa che ci prenda per mano a capire l’esatto opposto: ovvero che nella realtà in cui siamo immersi, c’è qualcosa per cui vale la pena restare fino alla fine.

Insomma, quando leggiamo vogliamo una storia.

Ma quindi?

Il fiume dell’attenzione

Mi viene da pensare una cosa forse banale: la realtà è la realtà, una storia è percorso di senso che lo scrittore ha visto all’interno di una realtà e in cui ha selezionato gli elementi utili a raccontarlo.

Su questa differenza:

In breve una storia ben raccontata vi dà proprio ciò che non riuscite a ottenere dalla vita: un’esperienza emotiva significativa. Nella vita le esperienze diventano significative con il tempo, dopo che ci abbiamo riflettuto. Nell’arte sono significative ora, nel momento in cui accadono.

– Robert McKee, Story. Contenuti, struttura, stile, principi per la sceneggiatura e per l’arte di scrivere storiep.146, Omero editore.

Il lavoro dello scrittore, quindi, è scrivere questo percorso e condurre l’attenzione del lettore fino alla fine.

Proviamo, allora, a vederla dalla parte del lettore.

La sua attenzione – e il suo tempo e la sua disponibilità nei nostri confronti – sono come un fiume. È compito nostro condurla lungo il greto, cioè la storia, affinché giunga al mare, cioè la conclusione, in modo consapevole e univoco: chi è l’assassino e come ha compiuto il delitto?

Diversamente: immaginiamo che questo fiume, invece di procedere nel suo letto naturale, sia deviato in più rami e anche in rigagnoli: quale sarà la sua portata alla foce? Ci sarà tutta l’attenzione? O forse starà pensando ancora ad altro? Tutti i suoi dubbi sono stati chiariti?

Sulla regola della pistola di Checov

Torniamo alla domanda:

Checov dice: «Se in un romanzo compare una pistola, bisogna che spari». Secondo me, invece, sarebbe anche bello fare comparire una pistola, parlarne ogni tanto e non spiegarla né usarla mai. Il lettore è libero di crearsi il suo perché, no? (Paola Z.)

Quindi, che si fa?

Io credo che in un libro che possiamo definire buono, tutto sia sempre funzionale, anche ciò che ci sembra uscire dalle regole o elementi che si presentano senza pagare il conto.

Perché?

Perché probabilmente in un buon libro anche l’elemento estemporaneo ha un suo significato e una sua funzione: forse vuole proprio rappresentare la difformità della realtà rispetto al mondo narrativo e sicuramente troverà il modo per esprimere il senso di una scelta anti-narrativa.

Ad alcuni lettori questo piacerà, ad altri no: ma questi sono i gusti delle persone, a ognuno il suo.

Alla fine, mi viene da pensare, la risposta non viene dalla bontà o meno della regola, ma dalla percezione di senso che il lettore ottiene da come abbiamo usato la pistola, o le pistole, o tutte le altre armi che abbiamo inserito.

Se la visione che avevamo intuito come narratori arriva al lettore e ci consente di esprimere ciò che abbiamo dentro, va tutto bene, indipendentemente che la pistola spari oppure no.

Se, invece, il lettore non ha capito nulla e si chiede ancora perché… beh forse la nostra pistola avrà anche sparato, ma chissà a chi (forse al lettore).

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